sabato 26 aprile 2014

Una Pyombyno in fumo

Si parte, ci si muove, si va all'università, si fugge.

Facendo le valige, pronti ed impauriti, per il primo semestre di prova d'indipendenza, qualche fuorisede si sbilancia, lasciandosi andare ad affermazioni forti e cariche di odio e ostilità verso la propria cittadina di origine.
<<Non mi vedrete mai più>> sbuffa il diciannovenne frustrato, tra i denti, mentre prende il treno che lo condurrà verso un nuovo capitolo della sua vita.
Molti di coloro che partono, "costretti", in prospettiva della conquista del diploma di Laurea, considerano, però, il distacco più doloroso che altro; ciò che andranno ad affrontare sarà solo la parentesi che li terrà lontani dalle loro radici, dal loro territorio, da situazioni ripetitive ma che li fanno sentire in un Cocoon, protetti, dalle ali delle loro madri e dalla familiarità dei loro posti.
Tuttavia, vi assicuro che, in mezzo a questa mandria di malinconici, terrorizzati dal cambiamento, c'è una ristretta enclave di risentiti, di ragazzi che mentre guardano fuori dal loro finestrino, dondolati da un treno che odora di fumo e fabbrica, coltivano, dentro di sé, un sentimento più acre che altro.

Io, 5 anni fa, ho fatto 3 grandi valige, piene di libri, vestiti, piene di tutto.  Ho girato il mio colloso culo e me ne sono andata, sputando un colossale <<Spero che moriate tutti male, luridi stronzi; spero che questa cittadina muoia, razza di bastardi>>.
La mia città non mi aveva dato molto. L'amavo, perché aveva il mare, ma la salinità della gente mi aveva fatto venire sete di altro, tutta quell'aridità scavava e non dissetava.
L'ho sempre vista, come una città fantasma, i cui abitanti, privi di sentimenti, come dissennatori, mi rubavano la linfa vitale.
Mentre me ne andavo via, 5 anni fa, la guardai e dissi <<Meriti di spegnerti>>.

Qualche giorno fa il mio desiderio -scaturito da un incontenibile richiesta di vendetta, per due vite, la mia e quella di mio fratello, che non avevano ricevuto il dovuto riguardo- è stato esaudito.

Piombino si è spenta. L'altoforno, senza più fondi, senza più alcun finanziamento, come se non avesse più alcuno scopo, ha emesso l'ultimo sibilo, l'ultimo fiato, come un gigante stanco a cui non gli si da più di che cibarsi.
Il tumore che feriva la mia grigia, triste, città giace ancora lì, inerte.
La feriva, emettendo fiamme e fumi inquietanti, di colore post-apocalittico; ma la nutriva, nutriva i suoi abitanti, che odiavano quel mostro lugubre che si mostrava imponente e imperturbabile all'entrata della città; quando varcavi le sue porte, avevi l'impressione di avere messo piede nella terra di Mordor, o
, gettando lo sguardo verso il centro, che un libro di Dickens avesse trovato il modo di tradursi, nel XX e poi, successivamente, nel XXI secolo.
Nessuno è più interessato a lui: troppi debiti, troppe incombenze. Escludendo il suo aspetto, oramai, è attraente quanto una vecchia megera che tenta ancora di prostituirsi, sperando di raccimolare qualcosa, per andare avanti.

Non credevo che potesse mai davvero accadere e, quando mi è giunta la notizia, la nuca ha visto la sua peluria drizzarsi, insieme al raggelarsi del mio sangue. Mi sono sentita in colpa, come se quel desiderio recondito, che ho alimentato per tutti questi anni, potesse aver avuto conseguenze effettive, alla conclusione dei fatti.

Quel che accadrà, pare superfluo ricordarlo, ma sottolinearlo è quasi un dovere.
Padri di famiglia; uomini trentenni che aspiravano a diventarlo;ragazzi; chiunque orbitasse intorno a quel grande altoforno ha visto spegnersi, insieme al suddetto, anche il proprio futuro, i propri sogni, sfumati, insieme all'ultima nube di scorie prodotta. Non avranno avuto sogni di gloria di chissà quale rango. Chi è rimasto là, ha imparato a non puntare troppo in alto, ha ridimensionato i propri sogni, plasmandoli con realismo.

Ma questo non li rende inferiori ai miei.

Sono padri di famiglia di ragazzi/e che ho odiato, detestato e che mi hanno regalato un'adolescenza di emarginazione. C'é da dire che altri sono sconosciuti, amici, fidanzati, padri, mariti di ragazze con le quali, in fin dei conti, ho avuto un buon rapporto.

Le rate dell'Università rimarranno insolute. I mutui non si prosciugheranno soffiandoci sopra, né, tanto meno, le bollette del gas si risolveranno, dando fuoco a qualche ebreo.
Gli obiettivi, le poche speranze, che già si erano imparate a ridimensionare, svaniranno, circoscrivendo il tutto alla mera sopravvivenza.

Piombino- circondario compreso- è una città orribile perché ha fatto morire mio fratello; l'ho sempre considerata la colpevole della morte di un innocente. Così come ne sono responsabili i suoi abitanti. E' una città che ha coltivato, a forza di indifferenza e inedia, la mia tristezza, il mio cinismo, il mio disprezzo per il prossimo, è quella che ha forgiato la corazza difensiva che mi porto con fatica addosso.
E' una città alla quale, tuttora, dico, sebbene con meno furore e frustrazione: <<Non tornerò più da te, mi spiace>>. La mia vita so che sarà altrove.  Non so ancora bene dove. Ma non lì.
Ho imboccato una via il quale sbocco so non essere quel promontorio bellissimo, suggestivo, che si affaccia sull'Isola d'Elba. Tuttavia, a quell'imperativo categorico, usato a mo' di monito verso me stessa, con il tempo ci ho aggiunto un 'mi spiace', perché gli anni e la lontananza, e in qualche senso, quel latente, sporco e sottocutaneo senso di appartenenza, mi hanno insegnato ad amarla.

Piombino è la morte di mio fratello, è vero.
Ma a Piombino ho anche amato.

Piombino ha un tumore interno, che non è tanto l'acciaieria quanto l'ipocrisia dei suoi abitanti, ma ha un mare fantastico.

E poi, se Piombino muore, io con chi me la posso prendere?!
Il capro espiatorio mi serve vivo, se muore non c'è più gusto.



lunedì 14 aprile 2014

Coito ergo sum

Ci sono dei giorni in cui la musica non basta mai; non basta mai e non è sufficiente.
Non c'è un pezzo che ti descriva, non c'è una melodia che sia quella giusta.
Non è il blues, quello risolutivo, né il jazz; Dylan non arriva fino all'osso, Cohen ci arriva fin troppo e scava, fa male.
Vuoi solo qualcosa che ti tranquillizzi ma che ti faccia riflettere, che scuota.

Il suono della mia voce mi infastidisce, quella degli altri mi irrita più che mai.

Alla fine, nella perenne indecisione musicale, punto su Cohen, come sempre.

I nervi si quietano; i tic smettono di cadenzare il tempo con così imbarazzante frequenza; il battito rallenta.

Rimane, imperterrita, però, questa costante sensazione di nausea pervadente. Non è curabile con un semplice Plasil, così come il tamburellare delle tempie non passerà rimanendo sdraita su questo letto, in posizione fetale, al buio, nel silenzio dei propri pensieri.

Cohen, con la sua voce graffiante e grave mi coccola e rimprovera, la sua musica mi fa piangere, istintivamente. Mi parla delle mie inconcludenze e delle mie insicurezze. Lo specchio è troppo lontano, ma ci intravedo, riflesso, un esserino ranicchiato e sofferente. Gli chiedo cosa ha da rimproverarsi, ma sento che, replicando, mi sputa addosso, con rabbia e disperazione, troppe cose, troppi argomenti, infinite diatribe partorite da un cervello che lavora con labirintica ingegnosità.

Alza la testa, adesso, quel groviglio di carni, coperte e lacrime, e mi guarda.
Che c'è? Che vuoi da me?
Mi risponde con un singulto, non più capace di argomentarmi con sufficiente cognizione cosa lo crucci. Sono convinta che se gli dessi la possibilità di scomporsi in infiniti tasselli di puzzle, dandogli arbitrio di cambiamento, il risultato sarebbe l'autodistruzione, lo smembramento del puzzle stesso.
Ogni tassello sarebbe destinato ad essere sostituito, finendo, però, anch'esso per non soddisfare a pieno le aspettative.



Stupido essere piangente e inutile, chi sei?

"Sono solo il risultato di un coito fortunato."

lunedì 7 aprile 2014

Pre-esamination

Occhi sbarrati, spersi, gira per le strade senza meta. La vita, quella vera, è solo un mero ricordo del passato; una pallida chimera del futuro, irraggiungibile, ormai perso.

Si sente svuotato, senza più prospettive, questo povero essere, frutto di una società che lo ha riempito di valori, nozioni e che, poi, resasi conto della sua inutilità, della sua inadempienza a doveri cui non è all'altezza, lo ha abbandonato.

Si sente così questo individuo che ciondola da un lato all'altro del marciapiede. I suoi piedi si trascinano senza più voglia. Lo scopo ultimo è procacciarsi del cibo. Ovunque. Non ha fame, ma sa che, se dovesse mancare a questo appuntamento con il corpo, quest'ultimo cederebbe, sotto la debolezza delle membra, oltre che della mente.

Prende il panino, lo sceglie casualmente dal bancone. Senza fame, senza voglia. Lo mangia ma non ne sente il sapore. La percezione sempre più pressante della sua inettitudine lo sta sfamando, e, al tempo stesso, logorando, sfibrando e distruggendo.

E' lo studente universitario, quello sotto esame.

Quello studente-o studentessa- la cui sudorazione sa di nicotica e caffè. Da una settimana ha ormai abbandonato l'idea di lavarsi, accarezzando l'ipotesi di lasciare davvero tutto e tutti, per diventare “giramondo”.
Non ha più amici. Loro la cercano e lei rifugge dalle loro attenzioni, come un goblin che guarda con oscuro terrore alla civiltà.

L'ansia la percuote, mentre l'emicrania si insinua tra le nozioni apprese con fatica e dedizione.

Adesso, finalmente, lo sa. Doveva fare il gelataio.
"No, no, no, ma che dico! Cos'altro mi piaceva fare da piccola? L'addestratrice di pulci circensi! Perché diavolo non ho seguito i miei sogni?!?"

In questo frangente, se la dovessero mettere di fronti ai suoi libri di testo, si sentirebbe come Eluana Englaro messa alla prova di fronte a un semplice problema elementare. Non propriamente stupida. Vegetale, piuttosto.

Si guarda intorno. Ha percorso a malapena 500 metri per doversi nutrire, avendo finito, nella sua dimora, la scorta di radici e licheni. Ma quei 500 metri sono tanti, troppi. La luce è troppo forte, le macchine sono troppo rumorose e, poi, è intimorita da questi strani essere bipedi che scorrazzano tutto intorno a lei. Ha letto sui libri che si chiamano “persone”.

Chiude la porta alle sue spalle, finalmente, al sicuro.

Ricorda di essere stata felice, ma è una rimembranza che sembra non appartenere alla sua vita.

Abbandona il suo sporco corpo sul quello sporco giaciglio. “Avrò tempo di pulirmi solo quando tutto questo sarà finito”, assercisce, annuendo con sguardo da folle.

Sta per placare la sua ansia, quando la coinquilina 'X', impavida quanto sprovveduta, si affaccia alla camera, adombrata da tapparelle schermitrici di un mondo esterno spensierato, e pronuncia la frase con cui, le leggende narrano, si è formato il Maligno: “Ma, alla fine, quando ce l'hai l'esame?”.

Un colpo di rivoltella.

Poi il nulla.

[Considerazioni ultime: secondo me Meredith aveva chiesto, ad Amanda Knox "Quando ce l'hai l'esame?"]