sabato 15 novembre 2014

Merdavigliosi anni 2000

Ogni civiltà, dopo aver raggiunto l'acme, è destinata al declino, se non in senso economico e strutturale, quanto meno sotto l'aspetto morale.

Il mio personale punto di vista, guidato dalla mia esperienza e da una modesta analisi di ciò che mi  circonda, mi ha portato a desumere che la civiltà occidentale, la nostra, espressione di progresso e globalizzazione, è sempre più ridicola.

Tutto ebbe inizio lì, con lo scoccare del XXI secolo, con il 2001, l'anno del futuro, anno in cui autori e registi famosi avevano proiettato le speranze per il promettente millennio che era alle porte, che stava per dare il via alle danze.

Chi lo avrebbe detto che le cariche aspettative si sarebbero tradotte in caricaturali vignette tragicomiche.

Basta dare una rapida scorsa agli eventi, a partire dal primo gennaio, per capire che c'era quacosa di sbagliato, che la direttrice presa dall'umanità, quasi 15 anni fa, aveva in sé qualcosa di intrinsecamente corrotto, marcio.

Quel gran simpaticone di George W. Bush, una delle più gravi cause di dissenteria mondiale, vince le elezioni.

Silvio Berlusconi forma un nuovo governo.

Augusto Pinochet viene riconosciuto come non processabile e contemporaneamente centinaia di famiglie cilene riscontrano dolorosissimi bruciori anali.

Britney Spears esce con il suo primo Album: Britney. Gravissimo.

Esce il Best of Laura Pausini. Perché il declino dell'umanità si vede anche da questo.

L'11 settembre crollano le torri gemelle.

La Grecia decide di entrare a far parte dell'Unione Europea, che ha adottato moneta unica. Spassoso.

Gli Stati Uniti si rifiutano di retificare il protocollo di Kyoto.

Gli anni che sono succeduti al famigerato 2001, a conti fatti, però, sono anche più tragici, se confrontate con le informazioni, approssimativamente riportate sopra.

Tuttavia il mio intento, qui, consisteva solo nel farvi fare un salto di 15 anni, verso quel favoloso decennio '90 che finiva e che, in grembo, già portava il seme del demonio: quella popolazione fatta ancora di spermatozoi ed ovouli o di piccoli, innocenti infanti.

Sono e siamo cresciuti, oltre che formati, in decenni decadenti, decenni che si sono macchiati di colpevolezza nell'aver creato una massa di imbecilli, ipocriti, incapaci di niente se non di esprimersi a suon di cuoricini o stupidi, falsi, sentimentalismi.

Il ventunesimo secolo è davvero nammerda.

domenica 9 novembre 2014

Io sono Nessuno

"Mamma, ma quindi secondo te cosa diventerò da grande?"
"Amore mio, quello che vuoi, studierai ciò che più ti piace e diventerai felice."

Puttanate.

Una vagagonata infinita di puttanate.
Ancora una volta, quindi, mi ritrovo a pormi il solito, titro, ritrito e irritante quesito: perché i nostri genitori non ci hanno detto la verità?

Chiariamoci, non mi aspettavo che mi dicessero come andasse a finire "Scrubs", dato che era un'idea telefilmica ancora nelle palle del creatore della serie; neppure che mi svelassero che fine avesse fatto Carmen San Diego, ma, francamente, a posteriori, avrei apprezzato una cinica costatazione della realtà.

Certo è che, a quel tempo, sarei rimasta emotivamente sconvolta e, se l'ammonizione della genitrice fosse arrivata in pieno uragano adolescienziale, ovvio che la reazione sarebbe stata: "Tu nn mi kapisci, nn dai slancio all'individuo pensante ke c'è in me, sei aridaaaah"

Tuttavia non c'è da escludere che, se ogni genitore avesse esposto brutalmente, al frutto dei propri lombi, l'analisi del reale, adesso non ci sarebbe un'intera generazione delusa di non essere diventata astronauta/velina/calciatore/Indiana Jones.

"Figlio mio, c'è una buona percentuale probabilistica che tu possa diventare un autentico Nessuno."
Questo mi dovevano dire. Questo ci dovevano dire.

Invece lo sciocco ovulo e lo sciocco spermatozoo di origine mi hanno fatto credere, sperare, amare disperatamente ciò a cui mi stavo appassionando.
Con la fuorviante frase "Studia quello che più ti piace" mi hanno fottuta, illudendomi che la biforcazione dopo il liceo avesse una così facile soluzione. Così mi hanno esposto alle critiche, all'evidente inutilità di ciò per cui sto studiando, al fallimento, all'espatrio, come si getta un trancio di carne nella gabbia dei leoni.

Sì, perché , vi spiego, la Storia, quello che studio, è inutile, è fuffa, è un collage di informazioni che tutti potrebbero leggere, assimilare, comprendere, non c'è niente da capire nella noiosità di quello che, da anni, mi sta facendo spendere soldi, sudore, pianti e ansie.

La mia curiosità verso questa materie è così farcita di nulla che ormai quasi mi imbarazza presentare il mio percorso accademico; quasi mi vergogno di me stessa perché faccio il nulla, faccio la fuffa.

E mi vergogno a dire che la fuffa mi piace.

Mi vergogno a dire che mi capita di divertirmi quando studio, perché ho scelto una materia tanto affascinante da preferirsi quasi ad un bel pene eretto.

Mi vergogno perché scegliendo Storia ho spontaneamente scelto di diventare Nessuno, convinta, invece, che avrei  così dato una chance alla mia misera condizione di essere umano; che sarei diventata una persona acculturata, amando, con semplicità, il materiale che avevo per le mai.

Paradossalmente abbiamo scelto Storia, quando, noi, palesemente, nella Storia, non saremo mai Nessuno.

domenica 14 settembre 2014

Ridicole Confessioni Amorose.


Ho voglia di parlare con te. 

Ho voglia di dirti cosa provo quando sto nel mondo.
 

Che sembri una frase ridicola, uscita da un romanzo di serie C, quasi priva di senso, pare anche a me. Ma di questo siamo fatti, delle sensazioni che proviamo quando siamo nel mondo.
 

Possono essere forti, pungenti, lievi, alcune volte tanto lievi da non attirare l'attenzione di un osservatore poco attento. 
Ma di questo siamo fatti: dell'umidità che ti bagna l'occhio quando qualcosa ti colpisce troppo in profondità, in quell'antro in cui speravi che nessuno colpisse mai.
Del secondo di tristezza che ci vela gli occhi, prima che la nostra prontezza ci faccia sorridere in un profluvio di falsa gioia, nell'ennesimo intento ipocrita di mascherare il clown triste che giace sul fondo del nostro baratro.

Muoio dalla voglia di fermarti il polso per dire la verità, per aprire le mie labbra inutili, per liberarmi totalmente - almeno una volta. Per essere sincera, e dare un suono fonetico a tutti quei pensieri cupi che che si affollano dentro di me. Non voglio che tu mi capisca, ma che tu conosca e accetti, semplicemente.

Sarebbe bello poter sciogliere a proprio piacimento il nodo che immobilizza anche la tua gola, per poter sentire le tue parole che sgorgano dal tuo baratro. 

Grattare la scorza, scuoiare l'orso che mi trovo davanti, abbattere il meschino, il cinico, per sentirmi finalmente una privilegiata, e non una fra tante.

Non voglio rimanere clandestina del mio sentimento, non voglio dover ammettere di non essere bagnata anche se mi trovo sotto una pioggia battente. 

Voglio inzaccherarmi della realtà del mio sentimento, come un maiale che si rotola compiaciuto nel fango del suo castro.

La connessione profonda cui aspiro non deve profumare di gabbia e oppressione. 

Potrebbe durare un mese o un anno, come finire nel letto di morte di uno dei due, ma voglio che sia un legame che arrivi fino alle viscere, indipendentemente da quando debba finire. 

Perché non mi piacciono le cose fatte a metà.

Infatti, come non apprezzo i ragazzini che giocano a fare gli adulti, ancor di più detesto gli adulti che si mascherano dietro giochi infantili.

Lasciamo agli altri i selfie, i pranzi con i parenti, le convenzioni sociali, anche se adoro prenderti la mano in pubblico, seppur per qualche secondo, prima di essere assalita dall'imbarazzo; lasciamo che gli altri appaiano pure coppie perfette e noi due stronzi a giro. 

Non mi importa.

Ma lasciami dire che ti amo quante volte io voglia, lasciami il piacere di abbracciarti quante volte lo desideri.

Lasciami essere una stupida, zuccherosissima, femmina. Maiale, deh.

lunedì 4 agosto 2014

Involucri dimenticati


Natale.

La gioia di vivere esplode nelle case con l'intensità delle bombe su Gaza.

Quel meraviglioso periodo dell'anno in cui famiglie intere si riuniscono intorno ad un unico desco, pronte ad accoltellarsi d'amore.

«Che magia che sprigiona il Natale!» pensa, giulivo, lo scassinatore, accingendosi a forzare il portone dell'abitazione di un'ignara famigliuola, che – per il santo giorno in cui Gesù bambino è stato sgravato – ha prenotato una tavolata da 30 coperti nella chiccosa e rinomata trattoria “Da Mario ir sudicio”.

Il natalizio ritrovo, unico nell'eleganza e nel gaudio dei commensali, già incomincia a mostrare la peculiarità del suo splendore.
Cuginetti ululanti di giovin tumulto che scorrazzano intorno a vecchie zie, adornate di chincaglieria spolverata da cassetti d'anteguerra, che rimproverano maternamente i rispettivi figli, ormai cinquantenni, che guardano languidi i culi delle cameriere, che volgono uno sguardo di compassioni alle mogli dei relativi, che al mercato mio padre comprò.

Nuore, suocere, cognati, zii, mariti, figli, amici di amici di amici.
Un potpourri generazionale e genealogico - di menti e di idiozia - si sazia di portate monumentali, che sfamerebbero il Sierra Leone.
Una bocca unta addenta grasso d'oca, che cola sul di colei mento; due mani, freneticamente, richiamano l'attenzione del capitavola, affinché un surplus arrivi anche da loro, pronte a ingozzare il proprietario che le sventola vistosamente.

Ma la cosa che più di tutte scorre nell'esofago di quei facoceri all'ingrasso è il vino; il sangue di cristo; il mestruo della Santa Vergine Maria, che si fa bere a litri.

Ubriachi per alleviare il peso di tanti parenti tutti assieme, sorridono al triscugino, posto al proprio fianco, ebeti, e felici che il suono stridulo della prozia, arrivi ovattato, in fondo alle proprie orecchie.

L'alcool, il balsamo della sopravvivenza.

Le risa, le urla, i gran richiami di tanta comunanza risuonano vivi e quasi gioiosi, in un Natale come tanti, simile ad altri che si sono ripetuti e che si ripeteranno, forse identici.

In un angolo, però, vicino alla porta d'emergenza - sulla quale una pioggia battente ritma i secondi di questa umida ricorrenza - coperto - nella parte inferiore - da un plaid scozzese, è parcheggiato un vecchio.

E' a pochissimi passi da questa tavolata che ha visto spartirsi numerose eredità, e che, presto, cercherà di accaparrarsi anche la sua.
Tuttavia, nessuno lo nota, adesso che l'anatra ripiena è atterrata in mezzo al cotante leccornie.

Si guarda le unghie, ormai diafane, attaccate ancora saldamente a una ragnatela di pelle in eccesso.

Non ha fame.

A poco a poco, infatti, quei piaceri terreni che lo facevano sentire vivo, che lo facevano sentire un uomo, l'hanno abbandonato, uno ad uno.

Il primo è stato il desiderio sessuale e l'ultimo, ad andarsene, è stato quello del palato.

Quindi, adesso, lo spettacolo a cui è costretto ad assistere - parenti goduriosi, grondanti di unto - gli provoca la reazione che, probabilmente, hanno gli eunuchi quando gli si mostra un porno di Sasha Grey.

Lo ha lasciato anche quella voglia innata, che hanno taluni vecchi, di essere scontrosi, per qualsiasi cosa; quel residuo di forza vitale e taurina dell'età giovanile.

Non sa più quanti anni ha e, sinceramente, non lo so neppure io.

Sa solo di essere dimenticato, inutile, vuoto.

Lo legge nell'indifferenza di chi lo tiene in casa solo perché spera in un aumento cospicuo della percentuale di eredità; negli sguardi,
che lo oltrepassano senza vederlo, dei familiari; nelle penetranti smorfie di disgusto che lo colpiscono, se il suo vecchio, e plurinovantenne, sfintere decide di cedere, anche 'sta volta.

L'unica cosa che lo tiene ancora inchiodato a questa Terra, a questa vita che - anch'essa - pare l'abbia dimenticato, è la buona e forte fibra, che un tempo aveva; e quella sedia a rotelle, senza la quale non saprebbe neppure stare in piedi, per più di due passi.

Una cariatide che fa paura ai più piccoli quando cerca di avvicinarli  per elemosinare un po' di misero affetto, come lo farebbe un cane malandato; un vecchio che racconta sempre le solite tre storie agli astanti, non perché gli piaccian tanto, o perché crede siano rappresentative della sua esistenza, ma perché sono le uniche che si ricorda ancora nitidamente; le uniche in cui la nebbia lattigionosa della vecchiaia ancora non abbia avuto idea di farci il nido per poi proliferare.

Non reagisce più a niente, né quando giochi di scherno lo colpiscono al volto, senza alcun ritegno, né quando è oggetto di accuse, od offese.

La stanchezza l'ha vinto, l'unico sentimento che ancora riesce a domarlo è la profonda amarezza.

Anche ora , quando guarda la pioggia battente, sui vetri, mentre butta un occhio al convivio dei parenti, anche ora ha quel triste sguardo che aveva Bambi. Solo che Bambi, adesso, è la nuova portata, il nuovo animale morto arrivato al desco del parentado.

venerdì 11 luglio 2014

Piedi d'argilla


L'incedere umano è sempre un sintomatologia più o meno precisa sulla personalità dell'individuo.
Conosco moltissime persone che passano la loro vita a saltellare, felici, nel selciato della loro esistenza, danzando imperterriti, quasi noncuranti degli ostacoli che incontrano e incontreranno nel loro cammino. Determinati e guerriglieri, attraversano il loro tragitto, con sicurezza invidiabile.

Poi ci sono i timidi, quelli che, con malcelato timore, scrutano a sguardo basso il marciapiede, sono i fantasmi di loro stessi, volteggiano leggiadri, ectoplasmi. Cadenzano il ritmo poco vivace del loro orologio biologico con un procedere silenzioso, parallelo alle nostre realtà, pacifici, innocui, sempre troppo poco invidiati, sempre troppo biasimati.

Seguono le anime disastrate ma combattenti, che battono le loro suole, con cattiveria, contro l'asfalto.

I combattenti concludenti, che con il loro mento volto al cielo sembrano quasi urlarti che loro ce la stanno mettano tutta, con successo.

I concludenti fortunati, col passo strafottente.

I fortunati con il proprio futuro prossimo scritto in faccia, che hanno il Tom-Tom installato nel muscolo cardiaco.

Quelli che il futuro prossimo a mal fatica sanno che sia una forma verbale, striscianti creature subumane.

Infine ci sono quelli che hanno un'idea approssimativa della propria esistenza. Sanno solo che quest'ultima ha regole scadenzate da minuti, ore, giorni ed anni, ma non riescono a coglierne la consistenza, che le sfugge tra le mani, come una saponetta bagnata.
Individui che si riescono a vedersi esclusivamente attraverso un filtro cinematografico inesistente, perché, quando provano a calarsi nella realtà delle cose e guardarsi allo specchio, l'immagine riflessa gli provoca aberrazione, ribrezzo. La rifiutano.
Soffocati dall'incapacità di cambiare; dalla paura di farlo.
Creature che si illudono e illudono gli altri di mordere la vita, mentre, al contrario, a sera, essi stessi cadono sul proprio giaciglio stremati, e pieni di morsi.
Gente che sognava di diventare chissacchì, che sognava di non deludersi.

Gente mediocre.

Il loro passo è uno sbandamento, un continuo cambio di falcata, sperimentano per non inciampare. Ma di solito si ritrovano faccia a terra, con gli zigomi cosparsi di terriccio.

Eccomi.


[E poi c'é STOCAZZO]

sabato 26 aprile 2014

Una Pyombyno in fumo

Si parte, ci si muove, si va all'università, si fugge.

Facendo le valige, pronti ed impauriti, per il primo semestre di prova d'indipendenza, qualche fuorisede si sbilancia, lasciandosi andare ad affermazioni forti e cariche di odio e ostilità verso la propria cittadina di origine.
<<Non mi vedrete mai più>> sbuffa il diciannovenne frustrato, tra i denti, mentre prende il treno che lo condurrà verso un nuovo capitolo della sua vita.
Molti di coloro che partono, "costretti", in prospettiva della conquista del diploma di Laurea, considerano, però, il distacco più doloroso che altro; ciò che andranno ad affrontare sarà solo la parentesi che li terrà lontani dalle loro radici, dal loro territorio, da situazioni ripetitive ma che li fanno sentire in un Cocoon, protetti, dalle ali delle loro madri e dalla familiarità dei loro posti.
Tuttavia, vi assicuro che, in mezzo a questa mandria di malinconici, terrorizzati dal cambiamento, c'è una ristretta enclave di risentiti, di ragazzi che mentre guardano fuori dal loro finestrino, dondolati da un treno che odora di fumo e fabbrica, coltivano, dentro di sé, un sentimento più acre che altro.

Io, 5 anni fa, ho fatto 3 grandi valige, piene di libri, vestiti, piene di tutto.  Ho girato il mio colloso culo e me ne sono andata, sputando un colossale <<Spero che moriate tutti male, luridi stronzi; spero che questa cittadina muoia, razza di bastardi>>.
La mia città non mi aveva dato molto. L'amavo, perché aveva il mare, ma la salinità della gente mi aveva fatto venire sete di altro, tutta quell'aridità scavava e non dissetava.
L'ho sempre vista, come una città fantasma, i cui abitanti, privi di sentimenti, come dissennatori, mi rubavano la linfa vitale.
Mentre me ne andavo via, 5 anni fa, la guardai e dissi <<Meriti di spegnerti>>.

Qualche giorno fa il mio desiderio -scaturito da un incontenibile richiesta di vendetta, per due vite, la mia e quella di mio fratello, che non avevano ricevuto il dovuto riguardo- è stato esaudito.

Piombino si è spenta. L'altoforno, senza più fondi, senza più alcun finanziamento, come se non avesse più alcuno scopo, ha emesso l'ultimo sibilo, l'ultimo fiato, come un gigante stanco a cui non gli si da più di che cibarsi.
Il tumore che feriva la mia grigia, triste, città giace ancora lì, inerte.
La feriva, emettendo fiamme e fumi inquietanti, di colore post-apocalittico; ma la nutriva, nutriva i suoi abitanti, che odiavano quel mostro lugubre che si mostrava imponente e imperturbabile all'entrata della città; quando varcavi le sue porte, avevi l'impressione di avere messo piede nella terra di Mordor, o
, gettando lo sguardo verso il centro, che un libro di Dickens avesse trovato il modo di tradursi, nel XX e poi, successivamente, nel XXI secolo.
Nessuno è più interessato a lui: troppi debiti, troppe incombenze. Escludendo il suo aspetto, oramai, è attraente quanto una vecchia megera che tenta ancora di prostituirsi, sperando di raccimolare qualcosa, per andare avanti.

Non credevo che potesse mai davvero accadere e, quando mi è giunta la notizia, la nuca ha visto la sua peluria drizzarsi, insieme al raggelarsi del mio sangue. Mi sono sentita in colpa, come se quel desiderio recondito, che ho alimentato per tutti questi anni, potesse aver avuto conseguenze effettive, alla conclusione dei fatti.

Quel che accadrà, pare superfluo ricordarlo, ma sottolinearlo è quasi un dovere.
Padri di famiglia; uomini trentenni che aspiravano a diventarlo;ragazzi; chiunque orbitasse intorno a quel grande altoforno ha visto spegnersi, insieme al suddetto, anche il proprio futuro, i propri sogni, sfumati, insieme all'ultima nube di scorie prodotta. Non avranno avuto sogni di gloria di chissà quale rango. Chi è rimasto là, ha imparato a non puntare troppo in alto, ha ridimensionato i propri sogni, plasmandoli con realismo.

Ma questo non li rende inferiori ai miei.

Sono padri di famiglia di ragazzi/e che ho odiato, detestato e che mi hanno regalato un'adolescenza di emarginazione. C'é da dire che altri sono sconosciuti, amici, fidanzati, padri, mariti di ragazze con le quali, in fin dei conti, ho avuto un buon rapporto.

Le rate dell'Università rimarranno insolute. I mutui non si prosciugheranno soffiandoci sopra, né, tanto meno, le bollette del gas si risolveranno, dando fuoco a qualche ebreo.
Gli obiettivi, le poche speranze, che già si erano imparate a ridimensionare, svaniranno, circoscrivendo il tutto alla mera sopravvivenza.

Piombino- circondario compreso- è una città orribile perché ha fatto morire mio fratello; l'ho sempre considerata la colpevole della morte di un innocente. Così come ne sono responsabili i suoi abitanti. E' una città che ha coltivato, a forza di indifferenza e inedia, la mia tristezza, il mio cinismo, il mio disprezzo per il prossimo, è quella che ha forgiato la corazza difensiva che mi porto con fatica addosso.
E' una città alla quale, tuttora, dico, sebbene con meno furore e frustrazione: <<Non tornerò più da te, mi spiace>>. La mia vita so che sarà altrove.  Non so ancora bene dove. Ma non lì.
Ho imboccato una via il quale sbocco so non essere quel promontorio bellissimo, suggestivo, che si affaccia sull'Isola d'Elba. Tuttavia, a quell'imperativo categorico, usato a mo' di monito verso me stessa, con il tempo ci ho aggiunto un 'mi spiace', perché gli anni e la lontananza, e in qualche senso, quel latente, sporco e sottocutaneo senso di appartenenza, mi hanno insegnato ad amarla.

Piombino è la morte di mio fratello, è vero.
Ma a Piombino ho anche amato.

Piombino ha un tumore interno, che non è tanto l'acciaieria quanto l'ipocrisia dei suoi abitanti, ma ha un mare fantastico.

E poi, se Piombino muore, io con chi me la posso prendere?!
Il capro espiatorio mi serve vivo, se muore non c'è più gusto.



lunedì 14 aprile 2014

Coito ergo sum

Ci sono dei giorni in cui la musica non basta mai; non basta mai e non è sufficiente.
Non c'è un pezzo che ti descriva, non c'è una melodia che sia quella giusta.
Non è il blues, quello risolutivo, né il jazz; Dylan non arriva fino all'osso, Cohen ci arriva fin troppo e scava, fa male.
Vuoi solo qualcosa che ti tranquillizzi ma che ti faccia riflettere, che scuota.

Il suono della mia voce mi infastidisce, quella degli altri mi irrita più che mai.

Alla fine, nella perenne indecisione musicale, punto su Cohen, come sempre.

I nervi si quietano; i tic smettono di cadenzare il tempo con così imbarazzante frequenza; il battito rallenta.

Rimane, imperterrita, però, questa costante sensazione di nausea pervadente. Non è curabile con un semplice Plasil, così come il tamburellare delle tempie non passerà rimanendo sdraita su questo letto, in posizione fetale, al buio, nel silenzio dei propri pensieri.

Cohen, con la sua voce graffiante e grave mi coccola e rimprovera, la sua musica mi fa piangere, istintivamente. Mi parla delle mie inconcludenze e delle mie insicurezze. Lo specchio è troppo lontano, ma ci intravedo, riflesso, un esserino ranicchiato e sofferente. Gli chiedo cosa ha da rimproverarsi, ma sento che, replicando, mi sputa addosso, con rabbia e disperazione, troppe cose, troppi argomenti, infinite diatribe partorite da un cervello che lavora con labirintica ingegnosità.

Alza la testa, adesso, quel groviglio di carni, coperte e lacrime, e mi guarda.
Che c'è? Che vuoi da me?
Mi risponde con un singulto, non più capace di argomentarmi con sufficiente cognizione cosa lo crucci. Sono convinta che se gli dessi la possibilità di scomporsi in infiniti tasselli di puzzle, dandogli arbitrio di cambiamento, il risultato sarebbe l'autodistruzione, lo smembramento del puzzle stesso.
Ogni tassello sarebbe destinato ad essere sostituito, finendo, però, anch'esso per non soddisfare a pieno le aspettative.



Stupido essere piangente e inutile, chi sei?

"Sono solo il risultato di un coito fortunato."

lunedì 7 aprile 2014

Pre-esamination

Occhi sbarrati, spersi, gira per le strade senza meta. La vita, quella vera, è solo un mero ricordo del passato; una pallida chimera del futuro, irraggiungibile, ormai perso.

Si sente svuotato, senza più prospettive, questo povero essere, frutto di una società che lo ha riempito di valori, nozioni e che, poi, resasi conto della sua inutilità, della sua inadempienza a doveri cui non è all'altezza, lo ha abbandonato.

Si sente così questo individuo che ciondola da un lato all'altro del marciapiede. I suoi piedi si trascinano senza più voglia. Lo scopo ultimo è procacciarsi del cibo. Ovunque. Non ha fame, ma sa che, se dovesse mancare a questo appuntamento con il corpo, quest'ultimo cederebbe, sotto la debolezza delle membra, oltre che della mente.

Prende il panino, lo sceglie casualmente dal bancone. Senza fame, senza voglia. Lo mangia ma non ne sente il sapore. La percezione sempre più pressante della sua inettitudine lo sta sfamando, e, al tempo stesso, logorando, sfibrando e distruggendo.

E' lo studente universitario, quello sotto esame.

Quello studente-o studentessa- la cui sudorazione sa di nicotica e caffè. Da una settimana ha ormai abbandonato l'idea di lavarsi, accarezzando l'ipotesi di lasciare davvero tutto e tutti, per diventare “giramondo”.
Non ha più amici. Loro la cercano e lei rifugge dalle loro attenzioni, come un goblin che guarda con oscuro terrore alla civiltà.

L'ansia la percuote, mentre l'emicrania si insinua tra le nozioni apprese con fatica e dedizione.

Adesso, finalmente, lo sa. Doveva fare il gelataio.
"No, no, no, ma che dico! Cos'altro mi piaceva fare da piccola? L'addestratrice di pulci circensi! Perché diavolo non ho seguito i miei sogni?!?"

In questo frangente, se la dovessero mettere di fronti ai suoi libri di testo, si sentirebbe come Eluana Englaro messa alla prova di fronte a un semplice problema elementare. Non propriamente stupida. Vegetale, piuttosto.

Si guarda intorno. Ha percorso a malapena 500 metri per doversi nutrire, avendo finito, nella sua dimora, la scorta di radici e licheni. Ma quei 500 metri sono tanti, troppi. La luce è troppo forte, le macchine sono troppo rumorose e, poi, è intimorita da questi strani essere bipedi che scorrazzano tutto intorno a lei. Ha letto sui libri che si chiamano “persone”.

Chiude la porta alle sue spalle, finalmente, al sicuro.

Ricorda di essere stata felice, ma è una rimembranza che sembra non appartenere alla sua vita.

Abbandona il suo sporco corpo sul quello sporco giaciglio. “Avrò tempo di pulirmi solo quando tutto questo sarà finito”, assercisce, annuendo con sguardo da folle.

Sta per placare la sua ansia, quando la coinquilina 'X', impavida quanto sprovveduta, si affaccia alla camera, adombrata da tapparelle schermitrici di un mondo esterno spensierato, e pronuncia la frase con cui, le leggende narrano, si è formato il Maligno: “Ma, alla fine, quando ce l'hai l'esame?”.

Un colpo di rivoltella.

Poi il nulla.

[Considerazioni ultime: secondo me Meredith aveva chiesto, ad Amanda Knox "Quando ce l'hai l'esame?"]