mercoledì 30 ottobre 2013

I 29 anni di un morto. I 29 anni mai vissuti.

Se c'è una cosa di cui è difficile parlare, questa è la morte.

Da qualunque angolazione la si tratti si finisce per sbagliare, agli occhi di chicchessia. Si pecca di vittimismo
se si è un parente stretto del defunto; di blasfemia se si prova a scherzarci su, nel caso in cui lo si conoscesse appena.
Se ne piangi troppo la mancanza ti grogioli nel dolore e vieni sprezzato; se la tua voce non è rotta da un tremolio che preannuncia le lacrime la tua insensibilità offende.
Muore un personaggio famoso e vorresti rendere partecipe il mondo delle tue battute macabre sull'argomento ma il genitore ti sta già sfoderando lo sguardo di rimprovero; l'amico perbenista ti dice che non si fa. E intanto il tuo humor nero soffre a causa della censura...
I pietismi sono dietro l'angolo, appena fai un minimo accenno al tuo dolore personale. E il dolore appena accennato ti fa additare in quanto ne fai un uso egocentrico.

Ma chi la triste mietitrice l'ha respirata in casa non ha paura di essere scomodo. Impugna questa lama a doppio taglio dalla parte dell'acciaio, fottendosene di ciò che sarebbe socialmente corretto dire.
Alla morte mi ci avvicino con cinismo.
Non mi perito ad usare espressioni come “ha tirato le cuoia”, “ora è cibo per vermi”, perché non trovo utilità nell'usare perifrasi delicate per indicare il compiersi di una morte, l'accertamento di un cadavere.
Sono spietata, cattiva, graffiante, anche nei confronti del mio stesso dolore. Non mi ha mai riempito la bocca la bugia della persona cara che è volata in un posto migliore.
La sua anima non è volata da nessuna parte, è chiusa in una cassa, con vestiti nuovi che non userà mai, in un loculo del cimitero.

Detto questo, oggi avresti compiuto 29 anni. Ti saresti sentito alla soglia dei 30, quindi vecchio.
Come tutti avresti fatto un bilancio della tua vita, su quanto, sotto molti aspetti, ti avesse deluso,.
Probabilmente laureato, sicuramente bello, “ci scommetterei il buco del culo”, come diceva una tua vecchia fiamma, che saresti continuato ad essere fottutamente simpatico e, a tratti, brillante.
Un pronostico di una vita parallela che non hai mai vissuto. Un copione buttato nel fuoco, mai portato sul palcoscenico, di cui si può solo dire “sarebbe stato recitato divinamente”.

Il tuo corpo è decomposto, il tuo sorriso mangiato dagli anni. La pelle ridotta a brandelli, la barba, biondiccia, è probabilmente l'unico tassello di un puzzle distrutto che resiste, insieme alle ossa.
La percezione del ricordo è alterata dai lustri che si sono sommati, dall'impossibilità di vedere completata l'evoluzione da ragazzo a uomo. Come i pokemon. Non sei arrivato a livello 20, ti sei fermato prima, senza imparare altre mosse attacco. I tuoi punti ferita si sono azzerati.

Chi muore viene idolatrato, i difetti si opacizzano, i pregi, bruciati dalla fiamma ossidrica che ha sigillato la tua bara, adesso hanno un colore più brillante.
Ma, al di là di questo, scommetto che non saresti diventato un pessimo adulto.
Mi hai regalato un'infanzia divertente, sei stato un fantastico compagno di giochi, un aguzzino malvagio quando i giochi innocui non riempivano più le giornate.
"Ogni tragedia ha un suo perché, una sua ragione”, dicono; merdate simili ne ho accumulate molte, negli anni.


No. La morte non ha alcuna funzione espiatrice, per chi resta. 

Sono più cattiva e fragile, certo.
La mia personalità, mi ripetono, galoppa sopra le teste di molti.
Il dolore ha forgiato il carattere, creato una persona migliore, più scaltra, più cinica, più divertente.
La sofferenza regala consapevolezza, e la consapevolezza è felicità.


Sticazzi.


Mi ci sciacquo la fava con la consapevolezza, per dirlo con un francesismo.
Volevo essere una persona mediocre. Mi sarebbe andato benissimo. Mi sarebbe bastato.
C'è chi per salvarsi dal dolore decide di credere nella fede. Io ho decido di credere ai 20 kg di marmo della tua lapide che pesano sul tuo corpo. Fredda e bianca. Asettica come una visita alla tua tomba in cui non saprei cosa dire, non credendo che tu in nessun luogo possa sentirmi, perché non esisti più.

Però. Però persiste il fatto che oggi avresti compiuto 29 anni. Sposato, incazzato con una stronza che ti aveva appena lasciato. Magari già padre.
Il tuo migliore amico delle elementari è convolato a nozze, quello delle superiori ha fatto la stessa fine. Ed io mi sono ritrovata a pensare quanto sarebbe stato strano, e allo stesso tempo bello, venire al tuo di matrimonio. Una punta di gelosia, mista a felicità.

Intanto quella puttana di cui eri innamorato continua ad essere una puttana.

Avresti odiato il mio ex fidanzato, pur apprezzando il fatto che fosse nerd; mi avresti presa in giro per le volte in cui sono ritornata a casa sbronza. Mi avresti tenuta all'oscuro di molti tuoi segreti <<perchè tanto non capisci un cazzo>>, per poi farmeli lasciar scoprire da sola, innocentemente. Mi avresti trattata male, cercato di scaricare a un bordo di una strada. Avremmo litigato come dei cani da combattimento, ti avrei distrutto roba a cui tenevi, per dispetto, e tu mi avresti sputtanato davanti a miei amici, o viceversa. 
Eppure saremmo continuati ad essere complici, ostili, sprezzanti, a tratti cattivi, ma comunque complici che non si abbandonano mai.

Il dolore lo coccolo di notte, negli antri più nascosti della coscienza, quando ti sogno in tutte le forme, in tutte le età, quando percepisco solo la tua presenza, abbracciata in labirinti di nostalgia fatti di sonno, o quando nitidamente sogno il tuo viso. Sei lì, ci sei sempre stato; tornato da poco da un lungo viaggio; sogno di aver sognato fino ad ora, per poi gelare al risveglio, straziata da una ferita che non si curerà mai.

Sorrido al pensiero di assomigliarti fisicamente. Poi penso che assomiglio ad un morto. Mi arrabbio con me stessa quando devo guardare una foto per ricordare come eri.

Bestemmio.

-

Il mondo non fa poi così schifo, tutto sommato, per quanto lo disprezzi a parole, giorno dopo giorno. La vita non è così pessima, e tu te la sei persa.


Peccato, perché ti sarebbe piaciuta. Ma hai voluto fare lo stronzo, morendo senza neppure salutare.

giovedì 10 ottobre 2013

Ex che sanno di scarpe

Un/a ex è come un paio di scarpe che, da adolescente, adoravi; l'avevi viste per caso, passando da una vetrina, in periferia, erano particolari e per questo ti piacevano molto.
Misurandotele realizzasti subito che gli amici ti avrebbero preso un po' in giro, nel portarle, ma, consapevole che la tua forte personalità ti conferiva il dono di indossarle con orgoglio, le comprasti.
Erano comode, ti accompagnavano la camminata quasi ridendo; quasi correvano per te, da quanto il tuo piede di ragazzo era avvolto perfettamente da quel tessuto che non recitava nessuna marca famosa.
Si sbucciavano mentre ci facevi le scampagnate per il litorale maremmano e tu, con cura, le ripulivi, affinché durassero per sempre. Ci andasti ai concerti e ti ammortizzavano il portamento, in mezzo a mille pogate di metallari.
Poi il tuo piede crebbe, lentamente, in modo impercettibile.
All'inizio facesti finta di non curarti dell'anulare che bussava con sempre più insistenza in cima alla scarpa; poi ti arrendesti: passando da un 40 a un 42 questa scarpa non fece più per te. Ad ogni passo compiuto contorcevi il viso dal dolore e dalla scomodità, le galle si moltiplicano e tu, disperato, ti trovasti costretto a levartele di fretta e furia.
Le riponesti nella scatola, chiedesti a tua madre se poteva nasconderle, poiché, essendoci molto affezionato, nel rivederle, un moto interiore ti avrebbe tentato, facendotele rimettere per capriccio.
Le facesti riporre con un po' di frustrazione, chiedendoti come fosse possibile che, nonostante tutta la cura che ne avevi avuto, eri costretto a lasciarle marcire nella scatola, messo al muro dall'ineluttabilità della tua crescita e del tuo piede che si ingrandiva intorno a quel tessuto.
Passano anni, tu nel frattempo hai indossato molti mocassini, alcuni di marca, molti uguali a tanti altri in commercio.
Ti ricordi, improvvisamente, di quelle belle scarpe colorate che ti rendevano così felice di correre per il mondo.
Entri nello stanzino delle cianfrusaglie riposte, sposti un po' di polvere in qua e là.
Riappaiono, all'interno di quella scatola che ti fa illuminare gli occhi.
Le giri tra le mani, le stringhe sono slabbrate, le cuciture allentate, non hanno più uno sguardo gaudente, come un tempo. Confronti il tuo piede nudo con quella calzatura magica, anche un occhio poco esperto capirebbe che non riuscirai più a entrare in quella scarpa scolorita dal tempo e dal disuso.
Però rimani ancor lì a fissarla per un po', con un sorriso malinconico che sa di prati corsi insieme e di calci dati a un flipper che si incantava.
Insieme a quella scarpa hai percorso Km e galoppato, in quei pochi istanti, la voragine del ricordo; adesso, però, è solo una scarpa vecchia, con la quale non potresti più fare neppure un metro senza scaraventarla in un angolo, dal dolore.

sabato 5 ottobre 2013

Il ritorno del fuori sede. Parte 1

115 Km non sono tanti. Sono quelli che mi separano da “Casa”, sono quei 115 km che mi legittimano a dire che sono ufficialmente fuori sede.
Si, lo so. Il mio ritorno non è apocalittico, neppure epocale, non permetterei mai di paragonare il mio rimpatriare, al ritorno da fuori sede di un ragazzo che deve buttarsi in spalla e nella valigià 300 Km o più, di chi, pluasibilmente, deve attraversare un'intera Italia. In fondo io posso tornare quando voglio. Un'ora e mezzo e posso già respirare il Salmastro e le Acciaierie. Il romanticismo e l'industria.
Premesso questo, mi sento una fuorisede a tutti gli effetti. Sono vicina, geograficamente, ma con il cuore lontano e lo sguardo proiettato ancora più in là, dietro l'orizzonte; la mia condizione di studentessa esterpitasi da dove è cresciuta, quindi, è pari all'esperienza di un siciliano, o quasi.
Non torno mai, o cerco di farlo raramente, ma quando torno ci sono delle piccole che cose che mi fanno capire che sono rimpatriata, delle piccole sensazioni o “cose eccezionali di tutti i giorni” che vivo, immersa nella bolla di sapone di situazioni che non mi appartengono più, ma che si ripresentano, come un Revival.
C'è il pranzo fritto da mia nonna: 3000 calorie di unto in un solo piatto. Mia nonna, una Big Mama bianca che sistematicamente si dimentica che alla nipote manca un organo fondamentale per la digestione dei grassi, così decide di condannarla alla morte per trombosi. Pranzi infarciti dalle grandi discussioni sulla politica con mio padre, comunista disilluso, informato e pragmatico, che con il cuore getta ancora uno sguardo di amarezza a quelle idee che condivideva insieme a una folla di giovani pieni di speranza, convinti che la rivoluzione sarebbe stata DOMANI.
Davanti alla televisione e, quasi sempre, davanti a un piatto fumante di tortelloni fatti in casa, al ragù di cinghiale, commentiamo le notizie; mi da la sua opinione, mi informa degli ultimi eventi che intasano il mondo; a Pisa conosco lo scorrere degli uomini tramite sporadiche notizie catturate dal Web, inglobata come sono dai miei libri di Storia, mi perdo nel passato, lasciandomi sfuggire il presente, avvolta nella mia vita frenetica.
Sorridiamo, ironizziamo e ci arrabbiamo, usando come armi di offesa le nostre idee differenti, dettate da quasi due generazioni che ci separano. All'altro capo del tavolo la 3° generazione mangia rumorosamente il brodo, lo sguardo è vacuo, “IMU” “Crisi” “Femminicidi” “Spread”, parole chiave con un significato vuoto. Chissà se a 86 anni pure io avrò il suo stesso disinteresse.
Magari mentre apostrofo mio padre, dandogli del “venduto alla sinistra troppo moderata”, gli chiedo se può passarmi i fiori fritti, passando così dal tono di comizio al tono filiale nel giro di una frase. Un gioco delle parti che ci irrita e ci infuoca gli animi, ma ci diverte.
Poi prendo in mano “Il Tirreno”, giornale che posso leggere solo qui, d'altra parte non lo comprerei mai altrove, di spontanea volontà. Commento rifletto e leggo sulle informazioni locali riportate; roba distante di un posto che in parte è ancora “Casa”, ma che piano piano si sta trasformando in un ectoplasma che mi guarda ma non mi sfiora, se non nel sentimento.
Il ritorno è il caffè con i 'FrùFrù' a casa di nonna, lettura sul terrazzo, quando il tempo e la temperatura lo permettono, mentre nella cucina, a pochi metri, grossi voci rimbombanti recitano in una Telenovelas dal dubbio senso estetico.