giovedì 14 novembre 2013

Un muro bianco

Ti alzi malvolentieri, la mattina, ti chiedi: perché doverlo fare?
Certo, c'è la tesi. Certo, c'è l'ultimo esame. Certo, ho imbastito mille progetti che devono trovare collocazione precisa, in un futuro prossimo.
Guardo il soffitto, mentre mastico ancora un po' di saliva rafferma, nella mia bocca. Non vedo un cazzo perché sono pressoché cieca, mavvabbè.
Fa fatica alzarsi tutti gli stramaledetti giorni ad un'ora decente; d'altra parte non alzarsi significa abbandonarsi tutto il giorno al senso di colpa di non averlo fatto e di aver sprecato una giornata potenzialmente produttiva, un tempo avevo una coscienza che mi diceva quando studiare, quanto farlo e mi rimproverava a dovere se non portavo a termine gli obiettivi ripromessi.
Era il periodo in cui macinavo esami, era quella fase in cui bevevo giusto perché gli amici alle feste mi mettevano un bicchiere in mano, una lattina stappata, mi davano una pacca sulla spalla per incoraggiarmi a brindare a qualunque cosa ci fosse da brindare; poi arrivava lui, in bicicletta, mentre dal Polo stavo tornando a casa, e mi raccoglieva un po' barcollante ma allegra, mi diceva “sei un'imbecille”, mi dava un bacio e mi faceva salire sul sellino, appoggiata alla sua spalla, per non farmi cadere.
Mi alzavo tutti i giorni abbastanza presto, non che non fosse difficile, chiariamoci, ma il vuoto dentro era più colmo di convinzione che di disincanto.
Andavo a lezione già stanca, cappuccino con gli amici, full immersion su pagine ingiallite di archivi bibliotecari e poi la sera a mensa; la tessera, allora, non l'avevo ancora persa, i pasti erano decenti, il prezzo accessibile. Le giornate erano più corte perché FACEVO.

Adesso guardo il soffitto per una mezzora lunghissima, tutte le mattine.
Mi alzo, alla fine mi alzo sempre, anche se spesso accade per un semplice bisogno fisiologico da espletare, che diventa pretesto esso stesso per un “Oramai sono in piedi, mi faccio il caffè”.
Mi faccio una doccia rigeneratrice, alcune volte fredda, se la sera prima ho bevuto troppo, cosa che mi ricordano le tempie che pulsano forte, come dei bonghi a Parco Sempione.
Adesso non c'è nessun amico che mi passi la birra, nel tentativo di convincermi. Io stessa vado dal pakistano, ne chiedo una a due euro. Non so quando ho incominciato a credere che una Crest potesse farmi passare il malessere, riempendo il vuoto con liquido alcoolico.
Prima piangevo di più. Prima urlavo il dolore con più forza, ora mi limito a serrare le mascelle, scaricando la tensione ascoltando la musica.
Prima le lacrime sgorgavano con insistenza solcando avidamente le guance, ora non riesco neppure più ad aprirmi, se una persona mi abbraccia dicendomi “Sfogati, avanti!”. Rimango immobile, avvizzita, inerme davanti alla mia incapacità di confrontarmi con un dolore essiccato, talmente inaridito da aver rovinato le pareti del mio corpo dall'interno.
Il bicchiere di birra è diventato di vino, surclassato poi da quello di vodka: bruciare il dolore dall'interno, idratando con il liquore quella cavità essiccata, inibendo la sensazione di impotenza davanti a questo vuoto che non so più come colmare.
Di illusioni non lo voglio più riempire.


Prendo la tracolla piena di libri ed esco. I libri sono 5, 4 sono di lettura, un unico di studio, che forse neppure oggi toccherò, concentrandomi su argomenti che non competono il mio ultimo, fottutissimo, stramaledettissimo esame. Il mio autosabotarmi sta diventando ridicolo anche agli occhi di me stessa, che conosco – per sommi capi – il motivo per cui lo sto facendo.
La sera ritorno a casa, cazzeggio, mi sdraio sul letto, gioco al pc, poi mi rimetto a fissare il soffitto, con la musica alle orecchie, niente boiate sul “chi sono” “dove vado” “perché esisto”, che, però, diciamolo, sono boiate che ci siamo domandati un po' tutti, chi con il tono da bimbominkia, chi cercando se stesso in un autore russo, che scrive seghe mentali, tante come se dovessero sfamare i bimbi del Burundi; solo un semplice “Che cazzo sto facendo? Che cazzo mi è successo?”, 'nzomma, pur sempre cagate esistenziali messe in forma differente.
Ho sempre costruito i miei fantomatici, inutili, progettuali castelli in aria, con il sorriso di chi ci crede, adesso il sorriso non ha motivo di esserci, eppure c'è, mentre continuo a guardare un fottuto muro bianco, senza motivo.
Un tempo studiavo con passione, mentre la sera, salendo le scale di casa sua gli raccontavo un aneddoto figo, imparato leggendo documenti scartabellati.
Poi è calata la voglia. Lasciandolo andare è sfuggito il senso di cosa stessi facendo, come se, raccontandolo a lui, le mie parole fossero più reali, come se, fargli percepire la passione per quello che studiavo, fosse un modo per rendere orgogliosa me stessa. 
Forse ho studiato usando come forza propulsiva i motivi sbagliati. Eppure era così bello attenderlo alla porta, per fargli entrare il mio buonumore nel cuore.
Forse quello che mi manca è proprio la condivisione.

Alzo lo sguardo, il muro bianco è sempre lì.

Aspetta!
Non è completamente bianco, ci sono tre minuscole macchioline rosse! Sono le zanzare che hai schiacciato con i miei libri, al soffitto, una sera d'estate, esasperato dall'invasione aerea.
Mi hai macchiato il mio splendido muro bianco, metafora della mia esistenza senza senso e senza direzione, stronzo!
Ora mi toccherà imbiancare con il rullo...

Cristo, meno male ti ho lasciato.